Ecco, se per la morte di Haider mi sono limitato a trascrivere qui un messaggino di Fabri (che non spiega e non racconta i nostri anni al liceo, la nostra passione per quel pazzo criticato da tutti, ed invece da noi venerato per le sue esternazioni sempre al limite) per Guillaume Depardieu il discorso è diverso.
Luglio '07, Valeriuzza mi manda a vedere La duchessa di Langeais. Tratto da un romanzo di Balzac, il film si preannuncia come un pacco clamoroso. Ma io coi mattoni improponibili ci vado d'accordo, quindi non mi scompongo. Voglio godermi il film, fanculo ai preconcetti.
Minchia, è inguardabile. Un'angoscia terribile. Dopo venti minuti voglio scappare. Non ce la faccio. Non c'è storia, non c'è niente, non succede niente. L'ansia perchè il film finisca il più presto possibile, ovviamente, dilata il tempo e i minuti diventano ore, poi giorni poi secoli. La storia non va avanti, eppure succede qualcosa di strano. Mi accorgo di Depardieu, della sua interpretazione sentitissima, dirompente, fuori dagli schemi. La camminata sbilenca gli dona quel non so che in più, soltanto alla fine del film leggerò sul pressbook che è veramente zoppo. La gamba se l'è fatta amputare nel 2003, molti anni dopo una caduta in moto ed un'operazione mal riuscita tramutatasi in sofferenza continua.
Uno con una storia così non poteva che essere un attore fenomenale. Bello e dannato, geniale e sfortunato come i veri divi. Eppure lui un divo non lo era: forse schiacciato dalla figura del padre, lui sì affermato e idolatrato, da giovane Guillaume si diede alla droga, al disfacimento di se stesso. Finì in carcere ma riuscì a riprendersi, a rimettersi un po' in sesto, a capire qualcosa di questa vitaccia. Ricominciò a lavorare come attore, ed io lo incontrai sullo schermo dell'Apollo in quel pomeriggio caldo e disperato.
Tornai a casa disgustato dal film. Ne scrissi una recensione avvelenata, poi rimasi stupito dal fatto che i critici l'avevano invece osannato. La cosa non mi interessava più di tanto, anzi: allontanarmi dai pareri dei giornalisti affermati non era altro che una conferma. Poi.
Poi successe che, mesi e mesi dopo il nostro incontro estivo, ripensai a Depardieu e alla duchessa. Spulciai un po' in giro per capirci qualcosa, per trovare ciò che mi ero evidentemente perso: voglio dire, i gusti sono gusti ma un po' di rispetto nei confronti di Porro&co ci vuole, no? Mi buttai nella lettura di ogni recensione de La duchessa, cercai dettagli sulla vita di Guillaume, i pareri erano spesso unanimi, la sceneggiatura, la trasposizione curatissima e impeccabile e via dicendo. In un vecchio FilmTv trovai la cartolina con la locandina del film e la scheda sul retro. La staccai e me la portai a casa, perchè alla fine, sia pure dopo mesi e mesi, avevo veramente capito qualcosa di quell'opera così inconsueta. Che per me, tra l'altro, rimarrà sempre un non-capolavoro: ma quando un film a distanza di mesi ti sta ancora facendo pensare, allora vale la pena perderci ancora del tempo. Allora è davvero un'opera d'arte.
Guillaume faceva parte di tutto ciò. La sua esistenza inquieta e tragica aggiungeva quel tocco di magia che il 99,9% dei film non ha. Quante volte un attore da solo vale l'intera pellicola? Quante volte può succedere che i silenzi di sofferenza del protagonista siano anche gli stessi dell'uomo che vi sta dietro? A quel punto, bè, dovevo rivedere il film. Cazzo, DOVEVO rivederlo! Mi aveva dato tantissimo, e Guillaume, certo, speravo che trovasse la sua strada come attore perchè volevo ammirarlo ancora.
E invece niente. La vita lo tradisce ancora (ma è un tradimento reciproco? chi lo sa), Guillaume se ne va a 37 anni. Trovo un trafiletto sul Corriere e ci rimango di sasso. Mi commuovo ma non voglio fermarmi a pensare alle esistenze tormentate, al loro significato, al modo in cui queste persone a loro modo "speciali" donano le loro esperienze agli altri, perchè gli altri che poi saremmo noi possano capire, migliorare, andare avanti senza sbagliare. Mi comprerò il film e lo farò vedere solo a persone disposte a soffrire per arrivare ad una soluzione, curiose e avide di tutto ciò che è diverso, inconsueto, profondo.
Che tristezza.